Bentrovati a “Jerome”, la newsletter per gente disordinata che legge cose disordinate ed è pure emigrante (NO! So partito pe’ viaggia, pe’ conoscer’ un poco- direbbe il nostro Massimo Troisi, a questo punto). Anche questa volta, “Jerome” è in ritardo su tutta la linea, a causa del crocevia importante al quale si trova la mia vita in queste ultime settimane. Ciononostante, sono riuscita a leggere una fiumana di libri in questi ultimi due mesi, e sono pronta per raccontarvene alcuni.
Mettetevi comodi: sarà un viaggio che attraverserà il Giappone e l’Inghilterra e non risparmierà a nessuno le mie filippiche sull’editoria dei giorni nostri!
Gli amanti della notte-Mieko Kawakami, Edizioni e/o, pp. 278
Ho comprato “Gli amanti della notte” alla libreria Feltrinelli dell’aeroporto di Fiumicino, di ritorno dalla mia fantastica vacanza uzbeka. L’ho comprato pur sapendo che a casa, in Germania, mi aspettavano altri 47 libri nuovi di pacca da leggere, pur sapendo che sarei emigrata dalla Germania di lì a due mesi e quindi non c’era alcun bisogno di aggiungere un altro libro alla pila di quelli che poi avrei dovuto spedire. L’ho comprato con la consapevolezza del lettore forte: non importa quanti libri hai da leggere, c’è sempre tempo, c’è sempre spazio per comprarne un altro (e mai nessuno capiràààààà!). L’ho comprato nonostante la Feltrinelli dell’aeroporto di Fiumicino sia una degna rappresentante della situazione “Editoria e lettori in Italia”: praticamente somiglia più a un’edicola in fallimento che a una libreria, e forse è per questo che espone in bella vista i libri di un certo Giordano- sì, quelli che hanno per protagonista uno che si chiama Paolo.
Insomma, ho comprato “Gli amanti della notte” perché non ho mai letto niente di letteratura giapponese e perché era l’unico libro il cui protagonista non si chiamasse come l’autore.
Fujuko è una donna di 30 anni che vive da sola a Tokyo, dove lavora come editor freelance per una casa editrice. Introversa, il suo unico mondo è il lavoro: Fujuko maneggia con cura le parole, corregge refusi, controlla la coerenza di una storia, verifica i fatti esposti in un saggio. Ma non legge mai un libro che sia per suo puro piacere. I libri sono solo il suo lavoro, oggetti da scrutinare, passare al setaccio, e poi consegnare ad Hijiri, la referente della casa editrice che le commissiona i lavori. L’unico piacere che Fujuko si concede è una passeggiata il giorno del suo compleanno, che è il 24 dicembre. Dopodiché, ritorna alla sua casa vuota e sola, dove consuma lattine di birra dopo lattine di birra, lavora, beve, lavora. Un giorno, prostrata dall’alcol e dalla solitudine, Fujuko ritrova un volantino che sponsorizza i corsi di un centro culturale. Decide di andare al centro e iscriversi a uno di questi corsi, tanto per far qualcosa, tanto per dare una svolta alla sua esistenza. Lì al centro culturale, incontra per caso un uomo chiamato Mitsutsuka. Da quel momento, i due instaurano un rapporto particolare, fatto di incontri davanti a un caffè, chiacchiere appassionate sulla fisica della luce e commiati alla fermata della metropolitana. Riuscirà Fujuko a vincere la propria solitudine e ad aprirsi un po’ di più al mondo? O ritornerà, mesta e sola alla sua casa, pronta per aprire l’ennesimo cartone di birra?
Ho sentimenti contrastanti nei confronti di questo libro. La storia- anche se di una tristezza che al confronto “David Copperfield” potrebbe essere il racconto inedito di Aldo, Giovanni & Giacomo- è coinvolgente e si legge bene. Tuttavia, mi pare anche un’occasione sprecata per costruire una narrazione molto più complessa e profonda.
Innanzitutto, molto spesso non si capisce perché i protagonisti fanno quello che fanno. È il caso di Hijiri, la donna della casa editrice che è anche l’unica amica di Fujuko. L’autrice lascia intendere che Hijiri ha un carattere opposto a quello di Fujuko. Hijiri è estroversa, emancipata e girl power- e tutti quei discorsi femministi lì, che di per sé sono molto importanti, ma che andrebbero trattati con la serietà e lo spessore che meriterebbero. Ecco, serietà e spessore mancano da questo personaggio. Hijiri snocciola frettolosa qualche slogan sull’indipendenza della donna, lei non ha bisogno degli uomini, lei può farcela da sola, eccetera eccetera (lo avete visto Barbie? Ecco, la sensazione di piattume nel personaggio di Hijiri è la stessa che emana dal personaggio di America Ferrera declamante quel bel discorsetto nel film). Qui e là, nel corso della storia, si intuisce che Hijiri è l’unica persona a cui importi davvero di Fujuko, la sua sola amica sincera. Tuttavia, alcune situazioni della trama rimangono irrisolte, alcuni comportamenti dei personaggi sono inspiegabili, e la sensazione che rimane al lettore è: madonna, che palle queste due, non si capisce se si vogliono bene o no, se sono amiche o no, e se lo sono, non si capisce come sia possibile!
Ecco, ci sono un sacco di “non si capisce”, in questo libro. Non si capisce bene che cosa leghi Fujuko e Mitsutsuka, non si capisce proprio Mitsutsuka che tipo sia, che cosa ci faccia anche lui a quel centro culturale, non si capiscono i lunghi silenzi nella trama- i quali, forse, vorrebbero essere evocativi della solitudine della protagonista, ma che, ripetuti e inspiegabili come vengono presentati, risultano alla lunga fastidiosi.
Può darsi che “Gli amanti della notte” sia un romanzo metafora dei nostri tempi, colmi di individualismo e solitudine, tempi in cui intessere e mantenere relazioni è diventato maledettamente faticoso, e nessuno sa perché. Se la leggiamo così, allora- forse- riusciamo ad apprezzare meglio questo romanzo, il quale, tuttavia, mantiene dei buchi di trama irrisolti e avrebbe potuto dare di più.
La casa nuova-Lettice Cooper, Einaudi, pp. 336
Lasciamo il Giappone e voliamo nell’Inghilterra degli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta del ‘900. Rhoda e sua madre Natalie si risvegliano al mattino del loro ultimo giorno nella vecchia, grande e scomoda casa di famiglia. Il giorno del trasloco ne “La casa nuova” che dà il titolo a questo tesoro letterario che ho scovato, dimenticato da tutti nella grande libreria della mia famiglia in Italia.
Ero tornata a casa per una settimana, e mi ero appollaiata in cima alla libreria tutta bianca che mio padre ha progettato insieme a un vecchio amico di famiglia. Lì, tra le pieghe dei doppioni di libri dimenticati, nei meandri dell’opera omnia di Alberto Moravia e Jorge Louis Borges, ho scovato, tutto timido, questo librino edito da Einaudi, con la copertina tutta bianca e tutta lucida, pareva appena uscito dalle presse del tipografo. Se non fosse che la grafica, piuttosto antiquata, e il prezzo sul retro, ancora in lire, ne tradivano una veneranda età. Interrogati sulla provenienza di questo volume, i genitori non hanno saputo rispondermi: non sapevano a chi di loro due appartenesse, chi di loro due lo avesse comprato, come fosse finito lì sopra.
Imperturbabile, ho messo il libro in valigia, e me lo sono portato in Teutonia.
E meno male che me lo son portato in Teutonia!
Rhoda e sua madre Natalie devono traslocare da una casa vecchia a una casa nuova, ed entrambe si svegliano al mattino di questo giorno di svolta che è il giorno del trasloco. Rhoda, trentenne e nubile, accoglie con curiosità questo fresco cambiamento, fiduciosa nelle comodità di una casa sì più piccola, ma anche più funzionale. Natalie, la mamma, accoglie con spavento e rammarico questo terribile cambiamento, che la strappa al suo passato, alle sue certezze, alla sua piccola, prepotente tirannia di signora e padrona della casa vecchia e della vita dei suoi tre figli. Rhoda, infatti, ha un fratello maggiore di nome Maurice, elemento che il lettore vorrebbe prendere a sberle un capitolo sì e un capitolo no, e una sorella minore di nome Delia. Delia, la freschezza personificata, ha lasciato presto la famiglia, se n’è andata a Londra, ha conosciuto il Mondo, e nel Mondo ha messo piede, ben decisa e non farselo sfuggire. Nel Mondo vive, nel Mondo lavora operosa e al Mondo si apre con fiducia. Sarà proprio Delia ad aprire gli occhi di Rhoda, a spronarla a cambiare la propria vita, osare di lasciare la mamma, osare di andare a lavorare, osare di fare qualcosa che vada oltre i piccoli comitati e le piccole conferenze locali, a osare anche lei, proprio lei, la dolce e assennata Rhoda, a mettere ben decisa i propri piedi nel Mondo. Nel frattempo, il fratello Maurice può esser lasciato a dibattersi- come un pesce fuor d’acqua- tra l’attaccamento alle tradizioni, al proprio ruolo di capo di azienda e alla vecchia casa, e il desiderio di un mondo più giusto e attento ai diritti dei lavoratori. Tra il desiderio carnale per Evelyn, la moglie tutta boccoli, convenzioni e buone maniere, e l’amara consapevolezza del fallimento del proprio matrimonio con una provinciale che viene pur sempre da Gillian Cross. Se Natalie è il passato che vuol rimanere passato a tutti i costi, Rhoda è il presente che guarda con timida speranza- che si fa via via più vigorosa nel corso de romanzo- verso il futuro, mentre Delia è già il futuro. Maurice, invece, sta lì, nel mezzo, da qualche parte, ad annaspare nella propria inettitudine.
Quando leggo libri come questo, con personaggi come questi, che hanno sempre qualcosa da fare, che hanno sempre qualcosa da dire, e che fanno e dicono questo qualcosa in un contesto che ha senso…
Quando leggo libri come questo, con personaggi che non si chiamano Paolo, con personaggi che ami e che poi odi e che poi ami e che poi odi- in un saliscendi continuo-, con personaggi che non sono mai troppo buoni, o troppo bravi, o troppo detestabili, o troppo insipidi…
Quando leggo libri come questo, io mi chiedo:
-Ma com’è possibile che in vetrina alberghino i libri di Bruno Vespa e Chiara Tagliaferri, e non vi si trovi un libro come questo?
-Ma in che senso questo libro non viene quasi più stampato?
-Ma in che senso io devo trovarlo- dimenticato da tutti, genitori compresi- nei meandri di una libreria bianca nel paese di C., 13000 abitanti, nella provincia di Napoli?
Questo libro meriterebbe le vetrine delle librerie di tutto il mondo, altro che Bruni Vespa, altro che Chiare Tagliaferri, altro che Sally Rooney!
Questo libro è una bellissima scoperta, ma anche una meravigliosa conferma: gli inglesi, anche se hanno inventato la Brexit, hanno anche inventato la letteratura più bella e ricca di tutti i tempi!
Anche oggi siamo giunti alla fine di un’altra puntata di “Jerome”. Anche oggi vi ho raccontato due dei libri che ho letto nei mesi passati, e anche oggi ho lanciato le mie invettive contro gli scrittori italiani- troppo italiani- del nostro presente.
Ho pensato molto se aggiungere a questo episodio di “Jerome” il racconto di un terzo libro che sto finendo proprio in questi giorni e che è- finalmente- un romanzo di quelli lunghi, difficili, complessi, e chiatti.
Sto parlando di “Furore”, di John Steinbeck, che si conquista il titolo di romanzo più bello letto in questo 2023 che sta volgendo mesto al termine.
Ho pensato a lungo se parlarvi di “Furore” in questo numero, e poi ho pensato ancora: no, non posso. Non posso raffazzonare così il racconto di un romanzo che è un monumento. Ho bisogno di terminarlo, ho bisogno di pensarlo, ho bisogno di rifletterci, scrivere, pensare, rifletterci ancora.
E, forse, allora, sarò pronta a parlarvene tra un mese.
Un mese esatto, giorno più, giorno meno (che tanto s’è capito che per un po’ l’andazzo è questo) alla nuova puntata di “Jerome”.
La puntata speciale dedicata a “Furore”- anche chiamato (in originale):
The Grapes of Wrath.
Ci risentiamo il 3 novembre!
Furore è tra i tre libri più belli che io abbia mai letto. Attendo la prossima puntata con impazienza